Con tanta trepidazione prendo la parola da questa santa cattedra che è stata di don Tonino, dalla quale per 14 anni il vescovo Luigi vi ha guidati.

Sentite tutti il disagio di ascoltare un’altra voce, un intruso, mentre eravate abituati alla voce del pastore, perché le pecore, dice Gesù nel vangelo di Giovanni, al cap.10, conoscono la voce del pastore.

Da un mese sono iniziati per voi, per questa santa Chiesa, i giorni non tanto del lutto, quanto del disagio di una cattedra vuota, di una casa del vescovo con le finestre chiuse, dovreste sentirvi smarriti. Certo Gesù, il Pastore, attraverso il quale ci giungono i pastori a seconda delle esigenze, dei tempi e dei momenti, non vi abbandona (lo abbiamo cantato e pregato all’inizio: il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…). Ma noi abbiamo bisogno di voci, di sguardi, di un volto; abbiamo bisogno di un timbro che raggiunga il nostro cuore, che ci dica che questo giorno che aspettiamo, finché non spunti il giorno, è vicino, che ci rincuori, che renda questo attraversamento di notti e deserti, meno faticoso. Siamo qui, carissimi, a ricordare, a rinfocolare la nostalgia, a riannodare vincoli che l’eucaristica ci restituisce nella loro lucentezza.

Nulla passa di ciò che è iniziato e si è vissuto all’ombra del grande Pastore. Passano i giorni, passano i secoli e Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre. In lui i nostri defunti rivivono, in lui noi li rincontriamo e in questa eucaristia rincontriamo la dolcezza del vescovo Gino, per dirgli grazie ancora una volta (lo avrete fatto tante volte in questo mese) per essere stato con noi, per avere condiviso un tratto di strada difficile, per aver raccolto le nostre lacrime, condiviso i nostri dolori, i nostri orizzonti, le strade, il pane, le nostre crisi. Un pastore è dentro la vita del suo popolo, è impastato nella storia della sua chiesa e diventa una colonna definitiva. La storia delle nostre chiese – lo sanno bene i presbiteri e i diaconi – si snoda attraverso nomi e volti, attraverso anelli d’oro. I nomi e i volti dei pastori che, in una provvidenza divina, si sono alternati per dirci che la notte sta per passare, finché non sorga il giorno. Verrà un giorno, carissimi, in cui non avremo più bisogno di pastori, di vescovi, presbiteri, diaconi, perché Gesù sarà il Pastore visibile, ma oggi ne abbiamo estremo bisogno, come il pane, come l’aria che respiriamo, come l’acqua.

Dire grazie al proprio vescovo che è partito in punta di piedi, che se ne è andato senza salutare e senza disturbare nessuno, è un’esigenza del cuore, delle pietre di questa cattedrale, delle vostre città; è un’esigenza imperiosa che vorrebbe chiedere: perché? E la fede è fatta anche di perché disperati che inclinano dolcemente alla speranza. Noi ci chiniamo dinanzi alla volontà di Dio che stabilisce i tempi e i momenti e che è stata accanto al vescovo Gino nell’ultimo passaggio, quando anche se fossimo stati in cento a fargli compagnia, non saremmo riusciti a rendere meno drammatico quel passaggio che attende ciascuno di noi: il passaggio dalla vita alla morte, il passaggio dalla morte alla vita.

Quello che vi sto dicendo e che il vescovo Luigi tante volte da questa cattedra e dagli amboni delle vostre chiese e parrocchie della diocesi vi ha ricordato, diventa ancora più vero, semmai ce ne fosse bisogno, nella luce di questa festa che la Provvidenza ha voluto coincidesse con il trigesimo della partenza da questo mondo di don Gino e della festa della Trasfigurazione, una festa centrale nella Chiesa orientale e che noi in occidente facciamo fatica a mettere come pendant della Pasqua. Una festa che è tutta intorno al vangelo che avete ascoltato, dove anche per noi si apre una parentesi di luce, dove anche per noi affaticati e oppressi in questa valle di lacrime, tra mille problemi, viene riservato un volto luminoso che trasuda luce anche sulle vesti. Come ognuno di voi sa l’evento della trasfigurazione è un anticipo di Pasqua, una Pasqua venuta anticipatamente per rincuorare i discepoli che sono stati appena messi al corrente della croce, dell’ignominia, dell’abbandono, del fallimento e allora Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e noi con lui, in questa sera rovente a Molfetta, e ci porta in alto “in più spirabil aere pietosa il trasportò”, a contemplare quello che dal basso non si vede, ci porta in alto a capire che Mosè ed Elia, la legge e i profeti, che tutto l’AT converge in lui e che c’è una parola nella versione lucana che abbiamo ascoltato della trasfigurazione, che dice il tema di questo discorrere che è anche il nostro discorre in margine alla Parola: Mosè ed Elia conversavano con Gesù del suo esodo, cioè della sua partenza, della morte del fallimento, della solitudine. Parlavano di questo e di questo dobbiamo parlare anche noi perché l’esodo non ci colga impreparati, perché l’esodo che attraversa come matrice tutta la nostra vita, possa essere celebrato a mano alzata, come nella notte del passaggio gli Ebrei nella prima Pasqua; a mano alzata significa da vittoriosi benché ci sembra d’essere perdenti.

Anche don Gino, vostro vescovo, anche Gino – mi piace chiamarlo così come l’ho chiamato ininterrottamente dal 1976 fino a un mese fa – si è confrontato con la Parola. La nostra vita ne è come intrisa, noi facciamo sogni sulla Parola, e la Parola ci fa sognare e ci tormenta, ci esalta e ci umilia, ci fa piangere e ci fa ridere e ci fa danzare. Anche il Vescovo Gino ha letto la Parola e ha letto la storia di Gesù, ma in filigrana ha letto al sua storia perché noi, quando dovessimo fare qualcosa di grande, null’altro facciamo che ripetere nei nostri giorni, i giorni del Signore e nelle nostre, le sue opere. Anch’egli è stato istruito dalla Parola sul suo esodo: l’esodo della nascita, perché la nascita è un esodo, è un essere lanciati fuori dal calduccio del grembo di nostra madre in un mondo ostile. L’esodo quando lasciò la sua casa per la prima esperienza di seminario, l’esodo di andare così lontano a Treviso, l’esodo di stare a Napoli – io l’ho conosciuto lì, davanti ad uno spettacolo meraviglioso che si gode dal terrazzo del seminario in via Petrarca 115 – un esodo, anche quello, che lo avvicinava certo alla sua terra, ma che era un passaggio. Poi il passaggio dell’ordinazione diaconale e quella presbiterale, cui ero presente. L’esodo di lasciare l’insegnamento al liceo per essere parroco, poi per essere docente di morale al Seminario Regionale, l’esodo di passare dalla cattedra alla stanza di padre spirituale. L’esodo che, in questa stessa città, si tratta di metri, ma in realtà fu come attraversare un deserto all’atto in cui fu nominato vostro vescovo. Quanti esodi! In questi quattordici anni di ministero, quante volte il vescovo è stato chiamato a lasciare per andare, a dimenticarsi per ricordare altri, a mettere da parte e a nascondere il suo dolore per condividere quello delle persone che andavano a raccontargli il proprio. Un vescovo, è vero per ogni prete, ma per un vescovo in modo speciale, è un uomo espropriato. Certo noi non lasciamo entrare facilmente nelle pieghe della nostra umanità, vuoi per pudore, vuoi perché è bene che il vescovo resti il vescovo, ma il vescovo, non lo dimenticate, resta un uomo con le sue nostalgie, le sue solitudini, con i suoi vuoti. Le volte in cui don Gino ha avuto nostalgia di Depressa, del Salento, del suo mare, voi direte “Anche noi abbiamo il mare qui”, ma il mare di casa propria, come il pane di casa propria, ha un altro sapore. Ecco, ci affacciamo oggi su questo cuore che è stato spalmato nella vostra storia, sui vostri cuori, non senza dolore, non senza un continuo espropriarsi, un uscire da sé per andare verso l’altro, verso i preti, innanzitutto, ai quali un vescovo è legato in una maniera fortissima nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore. Un esodo che ce lo fa contemplare forse con uno sguardo di nostalgia, forse con un dolore, forse con una voglia di andar via, di scappare. Appena qualche giorno fa, lo sanno i presbiteri, abbiamo celebrato la memoria del curato d’Ars che, nella sua santità, tante volte ha desiderato e ha messo anche in atto il desiderio di scappare dalla sua parrocchia. A volte noi vescovi abbiamo il desiderio e la tentazione di scappare dalle nostre diocesi – non vi scandalizzate – è per disegnarvi questa umanità perché, ricordatevi, che se non siamo uomini non possiamo essere credenti, che la fede più grande s’annida nel cuore dell’uomo più umano. E che per essere credenti bisogna essere umani. Spero che nei vostri preti, noi, voi sperimentiate questa umanità, che crea feeling, che getta ponti, che ci fa usare le stesse parole, ci fa condividere ricordi e giorni e notti e valli e deserti da attraversare. Il segreto della vita di un credente e, dunque anche di un vescovo, è quello che oggi la chiesa ci indica: trasfigurare. Noi ci figuriamo le cose, ce le raffiguriamo ed è la prima modalità di conoscenza. La conoscenza è raffigurarsi la rosa, oltre che il nome, perché non resti solo il nome delle cose. Poi ci sono quelli che sfigurano il creato, le relazioni, che lacerano dei vincoli, che graffiano dei volti. E ce ne sono altri che trasfigurano. Chiediamo perdono per quelle volte in cui anche noi abbiamo sfigurato qualcosa e ci ha reso più brutto ciò che era bello, ma chiediamo soprattutto la grazia, anche per intercessione del vescovo Gino che prega con noi e per noi, in questo momento, di trasfigurare la nostra vita e quella degli altri. La trasfigurazione è vedere, anche nel dolore, la luce, anche nella notte un’aurora boreale, anche nella notte senza luna un’alba che s’annuncia, un abbraccio che sta per giungere, un pane che sta per esserci consegnato, un’acqua per la nostra sete.

Grazie, vescovo Gino. Grazie, amico di una vita che ricordo per il sorriso e per la solarità. Già negli anni di seminario per noi Gino era luminoso, la sua compagnia, la sua amicizia allietavano serate e feste. Mi sono chiesto in questo mese: “Ma che c’era dietro quel sorriso?”. La mia risposta è stata “Tanto dolore!”. Non si può sorridere nella maniera luminosa con cui abbiamo visto fiorire tante volte il sorriso sul volto di don Gino, senza aver masticato a lungo tanto dolore. Penso, innanzitutto, al dolore della prematura partenza della sua mamma. Quando ho conosciuto Gino, io avevo vent’anni, la sua mamma era già partita e questo vuoto, ad avere un tantino di sensibilità, glielo si leggeva nel volto, nel retro-pensiero, nel retro-sorriso. Alcuni hanno questa abilità, di nascondere il dolore dietro un sorriso, forse questa è l’abilità dei padri e dei preti e dei vescovi. Eravamo ancora in seminario insieme quando fu la volta del suo papà. E questa casa, dove sono stato ospitato molte volte, era vuota, segnata da tante partenze, penso anche alla famiglia Martella che è andata in cerca di fortuna in Svizzera, all’estero, a cercare il pane, a cercare la possibilità di costruirsi una casa, era questo il desiderio di tanti a quei tempi.

Gino, noi siamo cresciuti – mi permetto di andare un po’ fuori dalle righe – con certe canzoni, quelle degli anni ’70. La nostra adolescenza, la nostra prima giovinezza ha i versi di Mogol e la voce di Battisti. Una me n’è tornata in mente mentre pregavo per te in questo mese, non è proprio liturgica, si chiama “I giardini di marzo”. Forse su queste canzoni noi siamo cresciuti e noi che non abbiamo mai fatto l’amore, in silenzio, misteriosamente, con gli occhi chiusi, è come se lo avessimo fatto sentendo le parole, i versi, le note di Battisti e le parole di Mogol. C’è un passaggio in questo testo dei “Giardini di marzo” – allora le canzoni non erano canzonette -: “Ricordavo mia madre, rivedevo i suoi vestiti, il più bello era nero con i fiori non ancora appassiti”. Ricordo dolcissimo e colmo di nostalgia di un giovane che pensa a sua madre e la rivede col vestito più bello, quello della festa. E allora t’ho chiesto, e adesso lo faccio pubblicamente: che cosa sia accaduto Gino quella sera, quando eri solo – ma lo saremo anche noi, ripeto – davanti alla morte e cosa hai visto? E come ti ha sostenuto quella fede che hai ricevuto da bambino nella parrocchia dei Santi Cosma e Damiano, alla scuola di un parroco severo che ho conosciuto? E come ti è apparsa tua madre, col vestito più bello, quello nero, con i fiori non ancora appassiti, e non sono appassiti, Gino, i fiori sul vestito di tua madre. E non sono appassiti i fiori sul manto della Madonna dei Martiri, alla cui intercessione sei ricorso tante volte e di cui ti sei fatto figlio con i figli di questa terra. E non sono appassiti i fiori sul vestito della chiesa, bella e splendente, come sposa adorna per il suo sposo. Non sono appassiti i fiori sul vestito di questa tua chiesa di Molfetta Ruvo Giovinazzo Terlizzi, che tu hai amato, per cui hai sofferto, per cui sei morto perché un vescovo vive e muore per la sua chiesa, e tu l’hai vista un mese fa, venirti incontro bella come non mai. Col vestito nuziale.

Noi siamo ancora nel tempo e i fiori che cogliamo appassiscono in un attimo. Tu sei nell’eternità dove quello che sembra perduto è ritrovato. Aiutaci a vivere questa temporalità. Insegnaci ad andare avanti con la forza della fede oltre ogni assenza, oltre ogni nostalgia. E noi ti promettiamo, Gino, che non appassirà l’amore per te, la riconoscenza per ciò che tu hai fatto per tutti noi e per ciascuno.

Amen.

* Testo non rivisto dall’autore.

Trascrizione dal video curata da Luigi e Salvatore Sparapano

Omelia* tenuta da S.E. Mons. Arturo Aiello, Vescovo di Teano-Calvi per il trigesimo della morte di Mons. Luigi Martella, vescovo di Molfetta-Ruvo Giovinazzo-Terlizzi.  Cattedrale di Molfetta, 6 agosto 2015

“Finchè non spunti il giorno”: l’omelia di S.E. Mons. Arturo Aiello, vescovo di Teano-Calvi per il trigesimo della morte di Mons. Luigi Martella.

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